“Arrivederci, mostro!”. Lo stesso cantautore ha spiegato un po’ ovunque, durante il suo “giro d’Italia” per promuovere il disco, questo enigmatico titolo: “Ognuno di noi ha i propri mostri, i propri fantasmi. Li si possono chiamare ossessioni, paure, condizionamenti (…) Sappiamo, però, che sono vivi e sono il filtro attraverso cui chiunque matura la propria, personale visione del mondo. Credo di conoscere abbastanza bene i miei ‘mostri’, mi fanno compagnia da tanto tempo. Può darsi che sia anche per questa lunga frequentazione che ora, in questa fase della mia vita, mi sembrano meno ‘potenti’ e ‘ingombranti. Alcuni di loro li ho affrontati in questo album ma era solamente per fargli sapere che li stavo salutando. Loro come tutti gli altri. So benissimo che sarebbe fin troppo bello che fosse un saluto definitivo. Infatti non mi sono permesso di dire: “Addio, mostro!” ma un più prudente e realistico: “Arrivederci, mostro”.
A cinque anni dal suo precedente lavoro (“Nome e cognome”), “Arrivederci, mostro!” sembra voglia dare un taglio netto rispetto al passato recente dell’artista, fatto di canzoni dalla musica melodica e dai testi introspettivi e romantici, e recuperare piuttosto l’anima rock dei suoi esordi. Infatti, tranne pochissime eccezioni, le tracce del disco sono caratterizzate dalla presenza quasi ingombrante di chitarre elettriche, bassi e batteria che si sovrappongono e si completano, dando vita a ritmi frenetici, incalzanti e coinvolgenti.
Ed è proprio così che si inizia: “Quando canterai la tua canzone”, la prima traccia dell’album, parte con piglio deciso e inequivocabilmente rock. Ligabue lancia una sorta di incoraggiamento a usare la propria testa per prendere decisioni senza condizionamenti e fare in modo di condurre la propria vita dove si vuole; un invito a fregarsene di chi “non sa sentire” e a cantare sempre e comunque “con tutto il tuo volume”. Si continua con “La linea sottile”. Sembra di ascoltare una canzone molto più tranquilla della precedente, salvo poi rimanere sorpresi dal rullo di batteria che esplode nel ritornello. Si potrebbe dire che con queste parole Ligabue voglia scuotere gli ignavi del nostro tempo (“Cosa pensi di fare? Da che parte vuoi stare?”), costringerli a scegliere tra lo stare al di qua o al di là di quella linea sottile. Arriviamo poi alla terza traccia, “Nel tempo”, canzone a cui il cantautore tiene particolarmente e che riassume parte degli eventi che hanno segnato la sua vita, dai primi ricordi di bambino a quelli più recenti degli anni di piombo, da “Zorro, Bleck e Braccobaldo” a “i Police a Reggio”, da “Belfagor e Carosello” a “Berlinguer e Moro”. Il ritmo incalzante, scandito dalla batteria, è funzionale al veloce susseguirsi degli avvenimenti narrati e fanno di questo pezzo probabilmente il più potente e veloce del disco. Il quarto brano è il primo pezzo veramente “soft” dell’album, una ballata romantica e struggente dal titolo “Ci sei sempre stata”, in cui si ha la sensazione dell’ineluttabilità di certi incontri, della consapevolezza che certe persone siano state messe al mondo per venire in qualche modo a far parte delle nostre vite, ad allietarle. Il tutto condito da una sorta di mistero al quale Ligabue non sa dare una spiegazione (“Più ti guardo e meno lo capisco da che posto vieni”), ma che accetta come un dono, quando nel ritornello dice “quando il cielo non bastava non bastava la brigata eri solo da incontrare ma tu ci sei sempre stata”. Il lungo assolo di chitarra finale è mescolato a una serie di suoni concreti (il pianto di un bambino, il tuono di fuochi d’artificio, i sospiri di una donna) come a volere farci vivere anche attraverso questi suoni “familiari” le emozioni che già da sé la canzone suscita e a enfatizzarle. “La verità è una scelta”: un bellissimo aforisma, ma soprattutto titolo molto evocativo della quinta traccia del disco. Anni e anni di disquisizioni filosofiche sul concetto di verità, ma Ligabue giunge alla sua propria conclusione: la verità è qualcosa di oggettivo e tangibile, ma ognuno di noi può decidere di farci i conti oppure scegliere di non vederla, di nasconderla ("ogni battito è una scelta/ ogni sguardo mantenuto/ ogni nefandezza che hai scordato/ ogni tanto non ci pensi/ vuoi soltanto andare avanti/ e schivare tutti gli incidenti"). Questo concetto è reso benissimo, a mio avviso, dal verso “di giorno sempre un occhio chiuso/ di notte uno aperto” col quale, appunto, si intende indicare la cecità davanti ai problemi e la voglia di non curarci, quando siamo svegli, degli stessi problemi che di notte ci impediscono di dormire. Le sonorità sono dure e incisive, proprio per rafforzare questi concetti così estremi. Al sesto posto troviamo “Caro il mio Francesco”, canzone scritta sotto forma di lettera all’artista e amico di sempre Francesco Guccini, nonché liberamente ispirata alla sua “Avvelenata”. Questa canzone si distacca completamente dallo stile di tutto l’album: la musica è quasi completamente assente, il testo è lunghissimo e il ritmo meno frenetico per far cogliere a chi ascolta tutto il peso delle parole che lo compongono; le parole sono sussurrate, quasi recitate, con voce calma e pacata, completamente in antitesi con quello che è l’argomento del brano: il tradimento e l’ipocrisia dei colleghi, le polemiche montate per avere visibilità e un “titolo più largo” sul giornale. Il linguaggio diventa a tratti duro e inflessibile (“parlavano di stile, di impegno e di valori/ ma non appena hai smesso di essere utile per loro/ eran già lontani,/ la lingua avvicinata a un altro culo”, “quei presunti mi puri/ mi possono baciare queste chiappe allegramente”), ma è lo stesso cantautore ad ammettere che si è “fatto prendere la mano/ perché uno sfogo fa sbagliare spesso la misura” e a dichiarare che andrà avanti, come ha sempre fatto, “a cantare della vita/ sempre e solamente per come io la vedo/ che la morte se la suona e se la canta/ chi non sa soffrire da solo”. La settima canzone, “Atto di fede”, si apre in sordina: poche chitarre, la voce roca e calda di Ligabue su un accompagnamento di tastiere. Ma il ritmo cambia decisamente dopo pochi secondi, a poco a poco che si allunga l’elenco delle cose che sono ormai entrate a far parte della vita dell’artista (“ho visto mari calmi/ e mari tempestosi/ e ho visto in sala parto/ la potenza delle cose”), alcune poco piacevoli ("ho visto tanti Giuda/ tutti in buona fede/ e ho visto cani e porci/ fatturare a chi gli crede"), ma altre meravigliose ("ho visto la bellezza/ che ti spacca il cuore/ e occhi come il mare/ nel momento del piacere"). Solo a questo punto troviamo “Un colpo all’anima”, il primo singolo estratto dall’album, e brano, a mio parere, non particolarmente entusiasmante. Quindi ci si chiederà il perché di questa scelta. Credo che il motivo sia puramente commerciale: è una canzone molto orecchiabile e facilmente memorizzabile a causa delle tante ripetizioni. In poche parole adatta a diventare un tormentone per l’estate che sta arrivando. Alla nona canzone mi sento già particolarmente affezionata poiché è tratta da una poesia scritta dallo stesso Ligabue (in “Lettere d’amore nel frigo”, ed. Einaudi, 2006), riadattata e limata per questioni di metrica. “Il peso della valigia” è una canzone commovente e che trasuda nostalgia da ogni verso: si parla di valige di cartone, rossetti finti, astucci di gemme, di oggetti cari a una bambina già diventata donna, i cui “occhi han preso il colore del cielo/ a furia di guardarlo”. “Taca banda” risulta un piccolo gioiello di musica blues, coinvolgente e allegra, che prende in giro diverse tipologie umane con il solito humoralla Ligabue (“alcuni sputano tutte le proprie sentenze/ senza nemmeno averle masticate”). Segue “Quando mi vieni a prendere?”, canzone impegnata e impegnativa, ispirata alla vicenda di Dendermonde, Belgio, dove, il 23 gennaio 2008, un ragazzo di vent’anni entrò in un asilo armato di un coltello e uccise una maestra e due bambini. Si tratta di una ballata triste e drammatica, resa tale ancora di più dal fatto che il cantautore ha cercato di raccontare il tutto dal punto di vista di uno di quei bambini. Per questo il linguaggio è estremamente semplice e le domande incalzanti del bimbo e le sue scuse per aver fatto arrabbiare i genitori sono disarmanti, quasi fosse colpa sua tutto quello a cui stava assistendo. Anche in questo caso la musica viene ridotta al minimo dell’invadenza, le chitarre sostituite da un’orchestra d’archi che sembra che piangano e da un suono di carillon che acquista, qui, una connotazione drammatica. L’ultima traccia del disco si intitola “Il meglio deve ancora venire” e fa sorridere la scelta del suo posizionamento. Nonostante tutto, nonostante i “mostri”, il futuro non sarà poi così orribile, ci dice Ligabue. Lui sembra crederci davvero e cerca di trasmettere tutto questo suo entusiasmo in un pezzo rock forte e travolgente, che sicuramente farà scatenare tutti gli stadi in cui verrà suonato.
LA BAND:
Alle ‘macchine’ in studio, l’ingegnere del suono Chris Manning (già famoso per aver collaborato con Santana, i Metallica e Joe Satriani). Gli altri musicisti sono quelli della band del tour: Michael Urbano alla batteria, Kaveh Rastegar al basso, Fede Poggipollini alle chitarre, Niccolò Bossini sempre alle chitarre e Luciano Luisi alle tastiere.
Tra gli ‘ospiti’, invece: il Solis Strings Quartet in “Quando mi vieni a prendere” e Lenny, il figlio undicenne del Liga che suona la batteria in “Taca banda”.
CURIOSITÀ:
Verso il finale un assolo di chitarra in “Quando canterai la tua canzone” viene doppiato dal suono ottenuto soffiando su un pettine coperto da carta velina, un vecchio trucco blues che poggia però su suoni decisamente attuali.
Prima eccezione nella sua discografia, “Arrivederci, mostro” non vede Ligabue né in veste di produttore né di co-produttore. Tutto il lavoro (incluse alcune parti di chitarra) è stato affidato invece a Corrado Rustici, storico produttore e chitarrista italiano, già insieme a Ligabue ne “Gli ostacoli del cuore”, “Niente paura”, “Buonanotte all’Italia” e “Il centro del mondo”.
Valeria